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Speciale Cannes: “Ma vie de Courgette” di Claude Barras

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Courgette passa le giornate a collezionare le lattine di birra svuotate dalla madre cercando di non disturbarla. Quando un incidente domestico lo rende orfano, il bambino finisce in orfanotrofio insieme ad alcuni coetanei. Il già precario nuovo equilibrio viene sconvolto dall’arrivo di una nuova bambina.

Un’ora e pochi minuti bastano a Claude Barras per raccontare Ma vie de Courgette, animazione presentata alla Quinzaine des réalisateurs e frutto di una coproduzione europea. La storia di formazione e di salvataggio di uno o più bambini di plastilina assume le fattezze di un racconto di riscatto sociale tutto interno a una piccola comunità di non più di una decina di persone, in cui ognuno è rappresentante di una situazione personale difficilmente accettabile socialmente.

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L’anno scorso era stato Inside Out, mentre quest’anno il festival di Cannes punta sull’animazione con Ma vie de Courgette (e altri due lungometraggi), un film sull’affermazione della propria identità, che intrattiene grandi e piccoli, con battaglie personali già a partire dal nome: Courgette (“zucchina” in francese) si chiama Icare all’anagrafe, ma il nome non lo rispecchia e il bambino risponde solo al soprannome scelto dalla madre alcolista, che, al netto di tutti i fatti, resta comunque sua madre. La sua identità tridimensionale è quella creata dagli affetti (o presunti tali) che lo circondano, per poi sbocciare e svilupparsi all’interno delle mura dell’orfanotrofio-carcere, che diventa sempre più simile a una casa famiglia nel senso letterale della definizione.

L’ineccepibile lavoro di montaggio visivo e sonoro mette in mostra le difficoltà delle relazioni sociali, anche ricorrendo a personaggi semplificati ma dotati di sguardi realistici e molto più espressivi di molti attori in carne e ossa: chapeau quindi anche per i creatori materiali dei personaggi. Le dinamiche tra i bambini, e tra i bambini e gli adulti, pur non rinunciando a una buona dose di retorica buonista, si mantengono verosimili, non concentrandosi su un unico aspetto della quotidianità narrata, bensì amalgamando gioie e dolori, dubbi e certezze, in un flusso coerente di fatti, emozioni e soluzioni alternative brillanti per sopperire all’assenza (definitiva o momentanea) della famiglia biologica. In questo panorama tematico risalta l’attualità del bisogno di trovare (e affermare) la propria identità: sia essa un nome, un atteggiamento o una nuova famiglia, Ma vie de Courgette grida che ognuno è libero secondo le inclinazioni personali e il rispetto di sé, a prescindere dal patrimonio che porta.

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Con un lieto fine inevitabile, il film rivela dunque anche un certo lato politico, che proclama la libertà di ognuno di definirsi come meglio preferisce e, soprattutto, che ogni ambiente che rispetta la complessità individuale è degno di rispetto, a prescindere dalla sua presunta “artificiosità”.

Teresa Nannucci

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